Ode alla terra da chi non la conobbe

ottobre 28, 2018

Ogni passo che muovo tra le zolle di campagna é un punto di sutura. 

Eppure nemmeno tra i ricordi più rimuginati sono mie le tempie perlate di sudore tra i filari delle viti a fare la scatena. Non é mia la fatica, nera, che curva le schiene come fascine di sarmenti. 

Non sono miei nemmeno i piedi, che passarono scalzi in mezzo ai rovi, a filarsi di sangue. E non può bastare ribadire fiero il vanto che quel sangue comunque mi appartiene. 

Custodisco, sì, certi piccoli vissuti contadini; li tengo come reliquie fissate alla parete meglio intonacata nella stanza dei ricordi. E quando torno tra le colline irpine quelli mi risuonano insistenti nella testa, quasi a farsi canto di cicale.

Mi riportano come voci di lontano la serenità che sgorga dalla fontana sul tratturo, l’odore intenso della terra appena arata, il sapore impareggiabile dei peperoni col pane, seduti fuori a un pagliaio, e il gorgoglìo rallentato del vino che dalla fiasca sospesa in aria, contro il cielo chiaro, stilla dritto dentro la gola, dritto dentro al cannarone.

Qualche strofa di un canto di mietitura o più spesso parole insinuanti e risolini tra i filari, aneddoti e sconcerie da far ballare le spalle delle nonne per intrattenibili risate, mentre abbassano pudiche il capo, protetto da maccaturi scuri anche d’estate.

E risale da sé, più tardi, l’immagine più recente degli occhi gialli e stanchi di un vecchio di famiglia, costretto per anni dagli acciacchi dell’età alla vita in paese, lontano dalla terra. Mi riappare vivida la scintilla improvvisa ed estatica che riaccese quegli occhi non appena dall’auto rivide dopo tanto tempo all’orizzonte l’ulivo che segnava il confine al suo terreno alla Mezzana, il pezzo di mondo che per più tempo aveva abitato. La sua sì che ha dignità di ferita che non si sana, non la mia.

E allora cosa fa tendere le dita dei miei piedi nella terra a ricercare la radice più nel fondo?

Cosa tira la mia mano verso il solco dissodato come la forcella di salice fa col rabdomante?

É la ricerca di un ricovero dalle infermità dei tempi nuovi. É il desiderio di dare un senso alle cose che sale assieme gli anni. É il contrappasso di una quotidianità distante, urbana. 

É il capo che cerca il cuscino del proprio letto dopo aver dormito a lungo fuori per un viaggio.

É un inganno, una romanticheria pretenziosa.

É forse – anche – un senso antico di sacrale che lega l’uomo con la terra. Quel rispetto quasi religioso, ma lontano dalla mera adorazione della cenere. Il rispetto del vignarulo, che si chiami donpeppe o come sia, che lega quando occorre ma dove serve pota. Perché così sente di fare per natura, quella natura della quale si sente in tutto parte e senza sforzo.

E questo é ovunque umano e sacro assieme. Di una sacralità oltre le credenze delle religioni.

Perché – parafrasando quel tale che scrisse di miserabili e di Notre Dame – se Dio ha fatto la vite, é poi l’uomo, l’uomo, a fare il vino.

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