Cimiteriali. Di umori e di amicizie di paese. / Tutto finto, tutto vero, non troppo breve, per nulla estivo.

giugno 29, 2019

Torno al paese per un lutto. Se ne è andato Giacomino, il più giovane della nostra compagnia. Aveva settantacinque anni e mezzo. Da vecchi si ricontano i mesi come con i bambini. É morto in campagna, come era giusto. Il primo a telefonarmi è stato Vitantonio. Eravamo legatissimi tutti e tre e anche con Luigi e Vincenzo che però da quando stanno nel New Jersey non sentiamo più. Gli è venuto un infarto, dice Vitantonio. E la voce ha dentro il dolore, ma quel dolore amaro di quando ormai hai messo in conto che può succedere, che veramente succede. E in mezzo alle parole mi passa pure una sua strana eccitazione, quella di chi per una volta ti chiama perché ha veramente una novità, terribile, ma pur sempre una novità, qualcosa da dire. In un paese dove non succede mai niente che puoi raccontare al telefono ha una notizia. Dopo che me lo dice resta in silenzio. Dentro quello spazio muto c’è una domanda che conosco. Gli faccio: mi organizzo e vengo. Neanche chiedo del funerale, sarà di certo presto per sapere quando, è successo solo poco fa. Mi metto in treno e a seguire mi arrivano le telefonate di mia cugina, che non ha mai granché considerato Giacomino, a mala pena lo salutava se passava. Ora però quando al suo nuovo tentativo le rispondo piange tutte le lacrime che ha e di più. Lo fa sperando, in cuor suo, che questo mi faccia “aprire” come dice lei da diverse decine di anni, mi determini il pianto. Il mio singhiozzare al telefono sarebbe il suo migliore risultato, in fondo è per questo che mi ha chiamato. Sarei tentato di fingere e darle soddisfazione, ma non ora, non con questo umore. Oltre che per i singhiozzi, in verità, mi ha chiamato anche per sapere a che ora arrivo e organizzarsi per venirmi a prendere.

Scendo dal treno alle 12.30. Ci vediamo in stazione.

Manco dal paese da molto tempo, tanto che vedo che alcune cose sono cambiate. Il cartello di benvenuto mi informa che il Comune è del tutto denuclearizzato, per quanto io non ricordi da mai un problema del nucleare specifico proprio di qui. Sotto ci sono i gemellaggi con due comuni del nord, di quelli dove più popolosa è la presenza di compaesani emigrati. Più che un gemellaggio vien da leggerlo come l’annuncio di due sedi distaccate. Le pale eoliche sono di molto aumentate. Il bar della piazza ha una insegna nuova, l’asfalto del Corso invece è vecchio, mantiene quella tonalità spenta, rassicurante.

Mi faccio portare dritto al cimitero, a salutare i miei ora che è l’una e i compaesani sono tutti a casa, con i piedi sotto al tavolo, per il pranzo. Le dico di non aspettarmi, che ci rivediamo a casa. I cimiteri di paese hanno una intimità fragilissima, la presenza di un’altra persona in mezzo a quelle tombe, pure se distante, può bastare a romperla. Salutare qualcuno in quell’ambiente poi è esperienza che evito volentieri. Per questo preferisco andarci la mattina molto presto e nelle ore del pranzo. La mattina però porta il rischio di incrociare una vedova premurosa o proprio Ze Nannina. Lei va al cimitero tutto i giorni da vent’anni, quando morì Michele suo. Non porta mai con sé un cero o i fiori, anche perché sono cose che a Michele non piacevano proprio. Gli porta una tirata di tabacco o qualche chicco di caffè e li ripone lì, sotto la foto. Spera così che gli arrivi almeno il profumo delle due cose che amava di più. Altro che incenso. Se la incontri devi avere la pazienza di ascoltare i conti sul marito e di come lo trovò esanime. Anche se sono sempre le stesse cose e le hai sentite tante e tante volte devi ascoltare, sorprenderti, annuire. Per chi vive così ci vuole un poco di compassione, anche quando abbiamo poche energie.

Più spesso lei va al cimitero la mattina; a pranzo, invece, più facile che manchino sia lei che gli altri. E infatti anche questa volta mi pare non ci siano altri viventi qui.

Faccio il giro degli affetti e qui non ne parlo perché è un campo troppo intimo per poterlo condividere, fosse pure per fantasia. Poi ho ancora un poco di tempo e provo a fare due passi di osservazione. Il cimitero per alcune cose racconta più del paese. Dei nuovi ricchi, per esempio. Li vedi più qui che dalle case. Che la villa arredatamilano, il guardaroba di marca a vista e la macchina potente e costosa sono solo i primi passi. Quando qualcuno entra nell’Olimpo dei potenti pensa a comprare o costruire, nei limiti del possibile e del consentibile e anche un poco oltre, qui, in questi luoghi, la casa sua per l’aldilà. Per l’eternità. Per l’imperitura memoria della propria grandezza tra i compaesani vivi e a venire. Una cappella nuova che rechi il cognome all’ingresso implica che già tutto il precedente di case, terreni, case per i figli, è stato raggiunto. É il suggello a una esistenza che manifesta ricchezza, unica forma di reale potere riconosciuto qui più che altrove. Potere venerato dai compaesani i n maniera dogmatica, senza farsi domande, come fosse sacrale. Non importa come quella ricchezza materiale sia stata raggiunta. Legale, illegale, poco fa. Contano i fatti. E i fatti sono le cose che si vedono, le cose che si comprano.

Girare a distanza di tempo nel cimitero a cercare i nuovi ricchi è un modo tutto mio, segreto, di provare a intuire le cose, le nuove genti che si pongono al comando.

Gli epitaffi invece hanno un valore differente, li uso da segnatempo. Sui marmi più vecchi o mancano, o sono semplici e concreti, significativi di chi fa (i fratelli posero) o ancora hanno una forte carica retorica di sempre e di giammai. Quelli più recenti recano parole ricercate, contengono riferimenti biblici o di altre letture, hanno una essenzialità contemporanea. Io, per me, una frase da far aggiungere alla lapide c’è l’ho in mente. Una frase insolita e pregnante, beffarda finanche. Quando sarà lascerò detto che voglio che sotto la mia foto – sorridente non come quelle da ricercati scovati dalla polizia che più spesso trovi qui – sotto la mia foto tra una data e un’altra di passaggio vorrò che ci sia riportata in caratteri grandi, facilmente leggibili, una espressione breve, di due parole, una promessa, un impegno, una previsione certa del futuro. “A presto”. Chiunque capiterà per volontà o per caso da quelle parti dovrà fare i conti con questo specchio: a presto. E certo, i più magari finiranno per non tornarci, chiunque ci passerà sicuro non mancherà di accompagnare la lettura dell’epitaffio con gesti apotropaici inequivocabili. Ma se anche uno, uno solo, ricaverà da quello un motivo di riflessione e si porterà questo a casa. E penserà poi una volta di più a una cosa tanto banale quanto poco frequentata come è il tema della caducità dell’esistenza, della precarietà del nostro tempo, almeno in questa condizione qua, umana, beh avrò raggiunto anche da morto un obiettivo che – con presunzione – considero molto più profondo del “liberati” di mia cugina perpetrato invano per tutta una vita.

A presto, non una parola di più. Magari giusto un punto alla fine per dare più forza pregnante al saluto, alla promessa, all’avviso. A presto.

Mentre mi attardo in queste riflessioni strampalate, amare e beffarde, sento il motore di un’auto che si spegne parcheggiando immediatamente fuori dal cimitero.

Mi appresto rapido all’ingresso, se devo incontrare qualcuno meglio comunque fuori di qui.

Varco la soglia e mi accorgo subito che è proprio Vitantonio, come avevo sospettato. Mi viene incontro con gli occhi lucidi e un’espressione che tradisce un mezzo sorriso. Ci guardiamo e ci salutiamo tenendoci i gomiti. É brutto da dire, ma il fatto di essere lì, sopravvissuti anche a un amico più giovane, a questa età, alla fine ti stampa sulla faccia l’espressione di chi pure questa volta l’ha scampata. Ci sentiamo un poco più vivi per una morte. E tutti e due lo sappiamo bene. Abbiamo entrambi negli occhi questa confessione e ognuno riconosce la propria in quella dell’altro. Rimaniamo così dentro un silenzio denso, poi lui prende e mi fa: faccia di lupo, ti tieni ancora bene eh! Mai peggio gli faccio, pure tu vedo che tieni botta.

Eh, è una lotta amico mio, ma che vogliamo fare? Qua non si contano gli anni e manco i mesi, qua ci contiamo i giorni. Vieni, ti porto a vedere la cappella dei nuovi ricchi, dei potenti di ultima generazione, tieni la faccia di chi non ha avuto occasione di visitarla.

Non abbiamo mai parlato di questo finora, mai. In verità non ne ho mai parlato con nessuno di questo mio speciale interesse, un poco pazzoide, per le novità al camposanto. Ma Vitantonio per qualche ragione lo sa e me lo dice dandolo come fatto acquisito, come se ne avessimo discusso a lungo e più volte. Gli faccio un cenno di assenso e mi viene un sorriso. Poi realizzo che per quel che è accaduto e per dove siamo non è molto indicato e mi guardo intorno come a chiedere scusa ai morti. L’umore mi è tornato buono e mi sembra per questo di far loro un poco torto. Poi mi perdòno.***

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