Il vizio della speranza. Affresco natalizio degli ultimi

novembre 27, 2018

Meglio vederlo senza averne letto molto. C’è modo così di avvertire dapprima il leggero fastidio di un titolo che appare come volutamente accattivante, nell’accostamento di due termini inconciliabili, vizio e speranza, salvo poi ricredersi e non per la svelata paternità della citazione: é di Giorgio Scerbanenco, scrittore, come riporta la pellicola al principio, in esergo.

Più per qualche cosa d’altro.

Meglio non sapere troppo dapprima di una storia che parla degli ultimi, delle ultime soprattutto: prostitute nigeriane che vendono il frutto del peccato, cresciuto in grembo, alle famiglie abbienti che desiderano un figlio a tutti i costi. Si potrà così apprezzare di più quanto si dipana nel terroir tipico di De Angelis: le ambientazioni in una Castelvolturno che diventa periferia universale, putrida, violenta e a tratti drammaticamente bella; una fotografia tirata su a forza di contrasti netti, di tonalità decise e a volte esasperate; le musiche senza tempo dell’ispirato Enzo Avitabile. Peculiarità di fondo di cui vi è traccia già in Mozzarella Story e in Indivisibili.

E se i personaggi appariranno a un certo punto piatti, distinti in buoni e cattivi secondo la più noiosa – quanto contemporanea – visione manichea, si scopriranno poi nel susseguirsi della storia le ragioni di fondo. E si apprezzerà che non poteva che essere così.

Nel frattempo ci sarà stata una scena iniziale di grande potenza scenica, un crescendo di drammaticità all’apparenza senza possibile salvezza. Interpretazioni credibili nella loro naturalezza, a cominciare da quella di Cristina Donadio, pure se in un ruolo non centrale. E alcune battute scritte per essere ricordate, sulla libertà, sulla schiavitù e sulla stella cometa, per esempio, che poi di fondo è quasi la stessa cosa.

De Angelis sgrassa, asciuga, prova a estrarre l’essenziale dal suo racconto di Natale. Toglie quanto non serve (basti dire che non vi è traccia di un telefonino) così che la storia appaia senza tempo. Un topos. Restano delle ridondanze in alcuni evidenti e diretti e frequenti riferimenti biblici. Non convince la scena della scoperta del caldo e del freddo per un figlio che ancora non è nato, forse perché richiama involontariamente l’enorme Massimo Troisi che registrava i suoni per Neruda ne Il Postino.

Appare poi troppo semplificata la scelta di affidare a una rapida ricostruzione di ZiMari (la bravissima Marina Confalone), la cattiva, lo scioglimento di un nodo centrale dell’intera sceneggiatura.

Ed è un peccato che il regista manchi due momenti di grande pathos quasi in pieno. Maria, la brava protagonista, passa da una vita a far da Caronte per anime perse a far sua una scelta enorme, vitale, senza che vi sia un momento topico, anche solo una inquadratura prolungata sul viso. Pure un altro protagonista, l’unico uomo, scopre che ha di fronte la persona che in passato gli ha cambiato la vita e la reazione non trasmette la sorpresa tragica che può umanamente immaginarsi.

La pellicola, però, nel suo insieme emoziona, il film permette di entrare piano piano nel mondo immaginato dagli sceneggiatori (lo stesso De Angelis e Umberto Contarello, che vanta collaborazioni di peso, da Salvatores a Sorrentino), alcune scene sono poetiche (come sulla giostra), il finale si fa ricordare.

Anche il titolo, alla fine, si può rileggere senza più il leggero fastidio iniziale. E permane la sensazione che il regista sia pronto per un film, il prossimo, che sia anche meglio, ancor più asciutto, memorabile.

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