C’é del buono ne“La ferocia” di Lagioia

marzo 19, 2021

La ferocia non è un titolo posticcio, azzeccato là a solleticare la curiosità del lettore, o imposto per finalità commerciali dall’editore.

La ferocia, fredda e senza speme, è proprio la cifra distintiva del libro di Nicola Lagioia; stilla come veleno dalle pagine in un romanzo con ambientazioni contemporanee e sentimenti di fondo senza tempo.

Le vicende narrano di una famiglia barese molto potente, il cui capostipite Vittorio Salvemini è un palazzinaro senza scrupoli.

La linea narrativa ha qualche incespico che ne rende non sempre agevole la lettura, ma invita a un gioco immersivo e a tratti psichedelico molto lavorato.

É un tratto che emerge dopo un po’, perché all’inizio il libro fatica a salire.

Quando si entra nella carne viva della storia si scorgono più decisi accenti di scrittura quasi cinematografica, con un montaggio serrato e cambi di inquadratura segnati con un punto, a dividere frasi brevi, tese, a sospendere il fiato.

Certi elementi stilistici volutamente ricercati, talvolta leziosi, si perdonano a fronte di alcune linee di scrittura notevoli. La descrizione tagliente di un funerale, per esempio. O la reazione feroce di uno dei figli del palazzinaro, Ruggero, dinanzi a una notizia che riguarda suo padre. O ancora la tenerezza amara che fa Michele, nato da una relazione extraconiugale del palazzinaro, quando in almeno due occasioni, chiede a differenti interlocutori se Chiara,  sua sorellastra amata, parlava mai di lui.

La purezza del sentimento di Chiara e Michele è un cerchio bianco in un quadro a tinte assai fosche. La simbiosi che deriva da un sentimento forte e a lungo coltivato é descritta con gli occhi di un osservatore attento, attraverso il sovrapporsi di certi gesti, l’assonanza di certi modi di dire, la raccapricciante concordanza che assume talvolta il tono della voce.

Poca cosa è la disattenzione di Lagioia che per una cena importante mette a tavola della famiglia Salvemini e degli ospiti una bottiglia di Amarone con il pesce crudo. Sono cose che non accadono, in Italia, in nessun luogo. Forse succede tra certi ricchi senza gusto della nuova Russia, forse.

É tuttavia un nonnulla se solo si pensa che nella sua prosa Lagioia incastra con sapienza gemme di altra fattura, invitando a scoprire per esempio i versi (e la storia) di Gerg Trakl. “Dove tu passi si fa autunno e sera”. “Dove tu passi si fa autunno e sera”. Che verso!

E lo è ancora di più dinanzi alla prosa resa come un refrain che sale di un tono ogni volta che tornano le righe uguali tirate tra i pensieri del medico legale.

Non tutto si salva, per la verità. Certi vezzi, come quello di chiudere domande interrogative senza l’uncino sopra al punto. O come quando esagera per cercare di ricavare qualche effetto, sorprendente o straniante chissà, bistrattando la lingua dai suoi percorsi naturali di senso, modo, tempo. O, in altri passi, quando pare strizzare l’occhio al lettore giovane, ad un modo e a un mondo un po’ adolescente. Non un capolavoro, per carità. Ma un libro lavorato a lungo (pure i nomi, evocativi), con passione, molto centrato, con pagine intense, scelte stilistiche originali e qualche cedimento.

Lagioia nel suo seguire i personaggi con una sorta di macchina da presa fa venir fuori da ciascuno il proprio essere e le proprie ragioni, anche le più feroci. Nessuno ne esce assolto, ma il libro (e chi lo legge) ne esce decisamente nutrito e nutriente.

 

 

 

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