Balarm – Annusare Palermo giugno 2, 2018 Balarm – Annusare Palermo Una volta l’anno i luciani sfivalano fino al mare che guarda il Vesuvio; tutti con la divisa buona e c’era pure il pazzariello in processione, dietro la coppia di popolani vestiti tali e quali al re Borbone e alla consorte. Una parodia, ma gli spagnoli non si prendevano collera. Era la festa della Nzegna e non si fa più, si teneva a Napoli in onore della Madonna delle Catene, che sta a Santa Lucia, ma nasce a Palermo. Come il miracolo che sta all’origine. Qui nel quartiere della Kalsa (eletta, pura, evidentemente araba all’origine) tre disgraziati dovevano essere giustiziati pure se – la verità – pare fossero innocenti. Era un agosto di settecento anni fa e non faceva così caldo da secoli. Condotti che furono i condannati nella zona lungo il porto ove abitualmente si teneva questo spettacolo educativo dell’esecuzione pubblica (niente selfie, please, recitavano i cartelli), venne loro in soccorso un maltempo che manco il cigno nero. Pioggia e – sostiene qualcuno – finanche grandine, in pieno agosto. Dovettero i gendarmi riparare in una Chiesa lì prossima, conducendo con loro naturalmente gli incatenati. Come che fu che accadde che le guardie – stanche – caddero dormienti, quegli sventurati un accorato appello alla Madonna rivolsero. E fu così che le catene che tenevano legati i disgraziati si sciolsero e senza far il minimo rumore caddero, così da consentire ai tre meschini di salvarsi e alla giustizia divina di trionfare. Di storie così ne è piena Napoli come Palermo, il Sud intero e non solo. E così di chiese. Per quanto, quelle di mare hanno quella bellezza essenziale e spoglia che è speciale, uguali e diverse da quelle rupestri. E di Madonne ne son piene le chiese del mondo. Quella raffigurata nella Kalsa a Palermo ha però un che di particolare. In mezzo alle catene, tra i tratti che hanno qualcosa di bizantino, qui la Madonna delle Catene allatta sì, come in tante altre raffigurazioni. Ma non allatta un bambinello, bensì un uomo fatto, anziano, stempiato. Come nella leggenda di Cimone e della figlia Piro che lo allatta e lo salva dalla prigionia. Come nelle sette Opere di misericordia di Caravaggio, a Napoli. In questa chiesa a Palermo la raffigurazione così potente però non è. E osservata per un poco richiede poi un ristoro all’aperto. Piazza Marina é a pochi passi e ospita un giardino largo, con dentro alcuni esemplari di un ficus che ha rami e radici lunghi e callosi. Il giardino é dedicato a Garibaldi e ad accogliere ci sono questi tentacoli come di una piovra. Garibaldi e la piovra. Manco fosse l’allusione alla trattativa Mafia Stato, quella del 1860. Meno male che poi le cose poi sono cambiate e che giornate così calde non ne son venute più. Nevvero? Balarm 2 – la Kalsa e lo Spasimo Non deve essere un quartiere semplice la Kalsa. Sui muri stonacati sono frequenti scritte e segni con spray colorati a tracciare figure quasi sempre senza grazia. Stan lì a marcare il territorio o comunque ad inzozzare un altro poco, più che a esprimere un che, come appare invece altrove. Per terra lattine fuori produzione da anni e altri rifiuti domestici sono coperti da una patina grigia e sembrano ormai integrati irrimediabilmente nell’arredo urbano. Consola che nel tratto che dai giardini Garibaldi conduce alla Chiesa dello Spasimo si attraversi via della Vetriera. Qui al civico 57 vi é la Farmacia Borsellino, oggi Casa di Paolo. Un centro per l’aggregazione dei giovani e per tante iniziative nel segno della legalità. Un cartello recita: qui dove è nato Paolo Borsellino i cittadini palermitani iniziano il risanamento del centro storico. É di qualche tempo fa e va riconosciuto che pure tra mille problemi Palermo ha ora comunque e visibilmente, anche per le tante iniziative nei quartieri, una immagine fortemente rinnovata e le basi per completare una rinascita che non può dirsi ancora compiuta. Come compiuta non è da mai la Chiesa dello Spasimo, che ha attraversato mille vicissitudini e tante trasformazioni: da complesso conventuale a primo avamposto di difesa militare, lazzaretto, sede universitaria, ospedale meretricio per ricoveri da sifilide, primo teatro pubblico della città, ricovero per le opere d’arte salvate dalla guerra. Oggi è luogo di incontri, concerti, rappresentazioni teatrali. Sorge a sessanta passi da una porta della città, simbolicamente, come la chiesa omonima a Gerusalemme, dicono. Avrebbe un altare che tuttavia smontato, spostato, promesso, non è ancora stato rimontato. Manca. E manca anche il dipinto commissionato per questo posto a Raffaello Sanzio, lo Spasimo di Palermo, visibile sì ma al Museo del Prado, a Madrid. É una Chiesa di assenze e di mancanze. L’incompiutezza ne fa un luogo unico per suggestione e meraviglia. Mancano imbellettamenti alla imponente struttura gotica e alzando lo sguardo si scorge la migliore copertura possibile: il cielo aperto, con tetto assente. Una chiesa non finita, scoperchiata, da sempre. L’incompiutezza e la decadenza restituiscono un senso e una tensione vitale alle cose del mondo che la perfezione compiuta non potrà mai donare. Chi crede così, ama Napoli e ama Palermo. Chi no, potrebbe iniziare soffermando lo sguardo più a lungo sui muri stonacati e finire sbuffando per la mancanza di un tetto allo Spasimo. Come pare sia capitato una decina di anni fa, quando venne un gruppo lombardo con in testa un tale che indossava una felpa, nonostante il caldo torrido. “Seicento anni e non hanno ancora finito la copertura. Ma siam matti?” Avrebbe detto costui, aggiungendo con la mano dritta a indicare la chiesa qualcosa tipo “Tel chi el terùn!”. Seguirono risate fragorose e plateali gesti di assenso di tutto il gruppo suo. Questo almeno confida sia avvenuto il custode della Chiesa che, spalancando gli occhi e con voce quasi preoccupata, finito il racconto, chiosa: “Uno non ci pensa, ma – pausa – non deve essere poi così semplice neanche crescere in Lombardia, sapete”. Balarm 3 – Polite ama Teatri: il Politeama e il Massimo a Palermo distano pochi minuti a piedi e un tratto di strada dritto, lungo un taglio lineare che fende da parte a parte la città. Da un lato diventa via Libertà e oggi è la strada dello shopping costoso laddove un tempo era tutta campagna. Dall’altro si fa via Maqueda, cerniera di mille microcosmi attigui, che prendono forma tra vicoli disposti a pettine. Il Politeama é teatro del Popolo, doveva imitare il Colosseo e proporre ogni sorta di spettacolo. Per quanto l’estetica è questione da sempre dibattuta e opinabile, la facciata neoclassica di questo teatro può ritenersi obiettivamente simpatica. Ha però una sua presenza, una spiccata personalità. Deve essere per quello che ha conservato la sua identità di Teatro Politeama finora. Nonostante gli sforzi del solerte responsabile della toponomastica che con Garibaldi ancora moribondo già gli intitolava (pure) questo teatro sulle carte. Sulle mappe. Ma il territorio é altra cosa e nessuno da mai quando nomina il Politeama ci aggiunge Garibaldi. Teatro Politeama, non altro, punto. Di più, la stessa piazza su cui insiste (sì, perché il Politeama é un teatro che insiste) sarebbe intitolata a tale Settimo Ruggero che pure finì con l’applaudire le gesta garibaldine. E però anche la piazza prende nei fatti un solo nome, quello del teatro: Piazza Politeama, non altro, punto. Come una sorta di rimbrotto tacito del teatro del popolo contro il piemontese e chi lo accolse. A guardarlo meglio, in fondo, il Politeama brutto brutto non è. Balarm 4 – il Massimo e la rotonda dell’orizzonte Dall’altro lato dello stesso tratto di strada che si fa via Maqueda c’è il teatro Massimo. Ha quasi gli stessi anni del Politeama, ma si presenta aristocratico, già dalla facciata, con una scritta a sovrastare che da sola meriterebbe una specifica dedizione. Non sfugge il Massimo di Palermo ai racconti con i “più”, come è d’uso nel mondo. Più antico, più grande, più bello pare sia slang essenziale per superare ovunque l’esame di guida turistica, un poco come scrivere in modo incomprensibile lo é per i medici. Qui il superlativo però é ridimensionato e pare più (più) vero. Presentano il Massimo come il teatro “più” grande dell’epoca sì, ma dopo quelli di Vienna e di Parigi. Imponente comunque al punto che – si narra – il re venuto dal Continente in occasione dell’inaugurazione non volle entrarci, ritenendo quell’opera eccessiva per quei meschini dei palermitani. A provare le comode sedie del palco reale tuttavia furono in tanti poi, fino all’indimenticato Al Pacino de Il Padrino. E sulle scale dello stesso teatro si girerà anche una scena memorabile del terzo e ultimo film della saga di Coppola, quella dei sicari, che qui non si riporta nei dettagli non per mancanza di memoria eh, ma solo per evitare l’effetto spoiler. Il palcoscenico del Massimo é grande due volte la platea. Vi é un impianto di aerazione naturale a pannelli mobili che é di un secolo e mezzo fa, quando ancora non esisteva l’obsolescenza programmata, e infatti funziona benissimo tuttora. I materiali per costruire il teatro furono in parte frutto del riuso di pezzi di altri edifici, anche di una chiesa. Si ascrive a questo la leggenda della “monachella” che qualche volta fa inciampare, dispettosa, allo scendere dell’ultimo scalino coloro che non credono che lei esista e si aggiri tuttora come un fantasma nell’opera. Ma é un’altra la particolarità che più sorprende dentro al Massimo, ovvero la cosiddetta rotonda dell’orizzonte. Questa sala, inizialmente riservata esclusivamente agli uomini, ha una acustica assai speciale. L’effetto eco é tale per cui se più conventicole parlano contemporaneamente, ognuno riuscirà a comprendere quel che dice il proprio interlocutore ma nessuno riuscirà a porre orecchio oltre, a sentire cosa si stiano dicendo gli altri. Non è un caso, of course, é stata progettata per avere esattamente questo effetto. Ne deriva una tutela della privacy che non passa per il limite, il silenzio, ma per l’uso sapiente dei rumori. Progetto pregevole, filosofia sopraffina. E funziona. E infatti qui si danno da allora appuntamento i palermitani per discutere di riservate vicende politiche e di delicate faccende commerciali. Di questioni private no, va bene la fiducia, ma con moderazione eh. Al centro della sala, poi, c’é a terra un tondo scuro nel pavimento. Chi si ferma esattamente con le suola lì sopra e fa per parlare avvertirà un sorprendente effetto acustico. Sentirà quel che dice come se stesse parlando a un microfono. Un microfono. Si sentirà come se si trovasse sopra un palcoscenico con gelato e casse. E sarà però il solo ad avvertire la propria voce amplificata. Un poco come quando si scrive sui social e si è convinti che tutti leggano. Tipo qui, ora. “Sssa – sssa – ssa“. Sipario. Balarm 5 – la fontana della vergogna La fontana Pretoria é tutto un effluvio di allusioni, citazioni, aneddoti. Sta a due passi dai Quattro Canti, dove via Maqueda si interseca con il Càssaro, la strada più antica di Palermo. Si vuole che la figura al centro della fontana, a sovrastarla, sia il “Genius loci”, protettore della città assieme a Santa Rosalia. Così evidentemente non è o, almeno, non da sempre. Quello lì non è il Genio. Questi è solitamente raffigurato come un vecchio incoronato che nutre un serpente: simbolo del nemo profeta in patria? Palermo che aiuta Scipione l’Africano (il serpente) contro AnnibaleAnnibale, grande generale nero? Chissà; quel che è certo é che alla sommità della fontana vi é un putto, giovane, un puttino. Non un vecchio, corona e serpente. E questo basterebbe. Ma soprattutto la fontana era stata progettata e realizzata per stare altrove, in Toscana. E tutti questi riferimenti alla capitale siciliana non erano proprio nel conto. Solo in un secondo momento fu venduta, smontata e trasportata a Palermo per dissipazione dei beni paterni da parte del discendente di chi la commissionò, nomi che qui taceremo per questione di privacy. Per la istessa ragione le quattro rampe di scale che permettono di salire verso le vasche centrali non possono essere state all’origine immaginate per raffigurare i quattro fiumi dai quali Palermo prese forma. È un falso storico, lo confermano le carte. Quando, tuttavia, si sente dire che uno dei quattro fiumi dai quali questa città prese vita si chiamava Maredolce. Maredolce. Tutto cambia. Un ossimoro così siciliano fa risalire alla mente Gesualdo Bufalino e il suo amaro miele. E allora non c’è più spazio per confutare, si accolgono tutti i racconti, si prendono per buone tutte le dicerie. E tante ce ne sono di dicerie per le decinaia di statue che contornano le tre vasche della fontana Pretoria. Che siano fatti storici o leggende poco importa, resta che volentieri si prova a credere a tutto. Si fa quindi vero che le due statue più esterne alla fontana, per questo dette “Termini”, abbiano il naso mozzato e azzeccato in modo posticcio, perché i riders che consegnarono i pezzi della fontana provenienti dalla Toscana erano messinesi e vollero fare uno sgarbo ai cugini palermitani (e che sgarro, visto che i senzanaso erano allora, pare, i magnaccia puniti). E vero é che la donna raffigurata con un cavallo rappresenti Giovanna D’Angiò, voluttuosa regina di Napoli. E si prova finanche a credere che il riferimento é alla storia secondo la quale, presa da irrefrenabile desiderio, volle ella provar l’amplesso con l’animale. Certo, prendere per buono pure che alla fine la regina ebbe a sentenziare “stanca sì, ma sazia mai” richiede uno sforzo notevole, per superare il dubbio che non siano parole messe lì in bocca malevolmente da un uomo. E si finisce così per diffidare anche del richiamo all’equino e all’unione bestiale. Non è forse vero che a frequentare la corte della regina v’era un prestante architetto che di cognome faceva “Cavalli”? una spiegazione ragionevole della rappresentazione nella fontana, pertanto, potrebbe essere questa, più allusiva e meno mitologica. La tentazione del raziocinio dura tuttavia un attimo, subito ci si immerge di nuovo volentieri a credere a tutte le storie, ai miti, alle leggende. Da Cerere a Bacco, a Orfeo alla Venere Callipigia (qualcuno direbbe oggi “dal bel lato B”, a conferma che l’imbarbarimento parte dal linguaggio). Da Adone a Proserpina, a Pegaso a Opi, dea romana che protegge le colture. Tutti qui raffigurati in altrettante statue linde. Non si fatica neanche a credere che Piazza Pretoria per i Palermitani si chiami Piazza della Vergogna per la cifra spropositata che costò a suo tempo l’acquisto della fontana. O forse per la nudità delle statue. Credenza da cui prende forma a sua volta l’aneddoto delle suore punitrici: vivevano lì a ridosso della piazza e non potendo sopportare la vergogna della nudità uscirono una notte per tagliare le sporgenze alle statue (molte delle quali risultano effettivamente evirate). Si riesce a credere a questo e al resto fino a che non si chiede conferma a uno dei palermitani che stazionano lì davanti la Piazza, pronti a offrire un giro in carrozza, trainati da un cavallo agghindato malamente e smunto dal calore. Se chiedi a uno di quei vetturini conferma che si chiami Piazza della Vergogna per le nudità delle statue, seguirà uno sguardo con un mezzo sorriso alzato di lato. Di quelli che si riservano alle anime belle che ancora seguono il calcio come un giuoco di pallone. Non una parola dirà poi il nostro, solo un cenno del capo. Verso quello che era il pretorio e che è ora il municipio, il palazzo delle aquile, che affaccia proprio sulla fontana. Capisti? Lì sta il nesso. La fontana Pretoria é detta Fontana della Vergogna per il malaffare che si annida usualmente e che si è annidato effettivamente in quelle stanze della politica per lunghi anni. Ora tutto é cambiato, dal mare non sono statue quelle che arrivano. Dalla politica non è solo il malaffare a far salire la vergogna. Quello là, che prova a ergersi sopra a tutti (si colga l’ardita metafora politica), no, non è il Genio. É evidente. Assomiglia piuttosto al serpente. Balarm 6 – la Palatina i siciliani e i siculi Superare le mura severe del Palazzo dei Normanni e scoprire la meravigliosa cappella Palatina é un poco come addentare una polpetta salata e compatta e sentire a un tratto il sapore dolce e cedevole dell’uvetta. Una sorpresa a contrasto che restituisce un piacere complesso, superiore. Ragion per cui anche a chi preferisce le chiese scarne e il senso della bellezza essenziale, la ricca Cappella Palatina resterà favorevolmente impressa. Pure se è un tripudio di mosaici, stili, raffigurazioni. É il sapore speciale che può dare un contrasto. Tutta la struttura ha millemila decorazioni a frattali, dentro un riflesso totale oro scuro che fa tanto bizantino. Al centro della volta fortemente arabeggiante (pare chiamino questa soluzione decorativa muqarnas, per dire) sta un austero Cristo a benedire, con tre dita aperte da una parte e il Vangelo chiuso dall’altra. Meriterebbe ben altro spazio e più competenti parole tanta graziadidio, resta che la Cappella Palatina é espressione eccelsa di quell’arte araba normanna (é consentito ancora chiamarla così, arabo normanna, si?) e tappa obbligata per chiunque giunga in città. E rappresenta un po’ il gioiello più prezioso dell’articolato complesso di Palazzo dei Normanni, che esigerebbe più tempo tra le torri che restano, il cortile, la Sala dei cinesi dove la regina si dice ricevesse il suo favorito, la Sala dei viceré, quella pompeiana e tanto altro ancora. Fondamenta di cinque secoli prima di Cristo, questo luogo ha attraversato spesso con un ruolo di protagonista tutte le fasi storiche e tutte le dominazioni. Fortezza militare e dimora reale, sede della santa inquisizione, dal dopoguerra ospita nella Sala d’Ercole l’Assemblea Regionale Siciliana, organo legislativo della Regione a Statuto Speciale. Non si prefiguri, il visitatore, una particolare difficoltà a visitare il Palazzo con tutta la Sala d’Ercole; di solito é possibile farlo agevolmente, senza che si rechi intralcio ai lavori degli eletti. Per favorire le visite dei turisti, infatti, costoro limitano al minimo riunioni, delibere, decisioni, leggi. Al minimo proprio. Il nuovo record é del marzo scorso, quando una seduta e durata esattamente sei minuti e diciannove secondi. Qualche anno fa l’Assemblea riuscì in un’impresa sfiaccante, da far invidia a Ercole e alle sue fatiche raffigurate sulle mura della Sala. Decisero gli eletti di unire le vacanze di Natale a quelle di Capodanno, collegare la Befana e il Carnevale, fino a tutta la Pasqua e il lunedì in Albis. Finì che non ci furono sedute per tre mesi buoni. Cosa non si fa per favorire il turismo. Se capita di visitare la Sala, tuttavia, é bene entrare filati, altrimenti si rischia di riconoscere nel corridoio di accesso, tra i quadri dei grandi padri dell’Assemblea Siciliana, l’immagine di Gianfranco Miccichè. Per chi lo avesse perso di vista val la pena ricordare che costui é nuovamente e attualmente Presidente del Parlamentino Siciliano, dopo esserlo già stato in passato. Chi lo conosce da sempre lo ricorda come il figlioccio di Calogero Mannino, che – dicono le malelingue – quando la mafia uccise il suo sodale Salvo Lima – si salvò favorendo una trattativa Stato Mafia su cui non è ancora stato possibile fare pienamente chiarezza. Della delegazione scelta per quel tavolo negoziale tra questi galantuomini, pare facesse parte pure tale Subranni Antonio, allora a capo dei Ros. Subranni Antonio, lo stesso che dapprima – certe volte le combinazioni – si era trovato sul posto poco dopo il ritrovamento di Peppino Impastato e aveva sostenuto che quel ragazzo era morto di mano propria, mentre metteva l’esplosivo sulle rotaie. Subranni Antonio. Consola che qualche anno fa hanno intitolato la Sala Rossa del Palazzo dei Normanni, ove talvolta pare si riuniscano i presidenti dei gruppi consiliari, a Piersanti Mattarella, siciliano, strettissimo congiunto del Presidente della Repubblica, praticamente suo fratello, vittima di mafia. E la Sala Gialla, a Pio La Torre, siciliano, che ugualmente combatté la mafia nel modo più efficace: con proposte di legge che ne riducevano pesantemente le manovre e il patrimonio. Consola l’intitolazione delle Sale, ma è bene non andarsi mai a cercare foto dell’inaugurazione. Si scoprirebbe che ospite d’onore era l’allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, siculo. E in qualche foto potrebbe comparire la persona che gli ha curato per lunghissimi anni la comunicazione e l’ufficio stampa: la sicula Danila Subranni, figlia di. (Suo fratello, Ennio, si occupa di reclutamento per i Servizi Segreti). La figlia di Subranni Antonio che va a inaugurare le sale dedicate a Mattarella e La Torre. Ci sono, direbbe Mantegna, contrasti e contrasti. Questi qui, per esempio, restano tali sempre, non possono avere ricomposizione alcuna e determinano solo una straordinaria secrezione di bile. Balarm 7 – Piacere e Morte Il Bar Mazzara, dove Tomasi di Lampedusa si tratteneva a lungo e vi scrisse il Gattopardo é chiuso, per fortuna resta visitabile invece la Sala dove Visconti giró la scena del ballo, nel Palazzo Valguarnera Gangi. Chiuso é il Bar Pinguino, ritrovo storico anche per un particolare digestivo inventato lì e chiamato “autista”, si vuole perché la prima volta fu sperimentato per l’urgenza digestiva di un signore automunito, appunto, con vari passeggeri scalpitanti a bordo. Spinnato, invece, anche nella sede che dà sulla Piazza Politeama, rimane e si fa sempre più una tappa obbligata a Palermo; offre ogni genere di tentazione per le papille gustative, dai cannoli alle cassate, alle paste di mandorla alla genovese di Erice, che è un po’ come una frolla, con la gobba più alta e la pasta più croccante. Merita una sosta anche per chiedere una informazione e non correre il rischio di rimanere delusi. Spinnato, infatti, tutto sa, perché con i turisti ci combatte. Da lì si può costeggiare, salendo, la piazza ed entrare nel mercato del Capo. Tra colori forti, odori mischiati e inviti cantati a comprare, secondo la migliore tradizione meridionale, si potrà incontrare una guida sentimentale. In un inglese che conserva una apertura delle vocali tipicamente siciliana o altrimenti calitrana questa guida spiega con trasporto che é tutto a gestione familiare, che il pesce uno lo pesca, uno lo vende al mercato e uno lo cucina più giù al ristorante. E sono tre fratelli. Understand? Lo street food ha fatto aggiungere giusto qualche insegna che strizza l’occhio al turista e fa salire un poco poco i prezzi. Ma qui come altrove si mangiava per strada già prima delle mode. Lo vedi anche negli occhi genuini e generosi del pescivendolo scuro di sole e con le pupille chiare chiare mentre serve le polpette di pescespada (con pinoli e uvetta, sicuro) e ne offre una fuorimano alla cliente. “Accuminciate” fa, annuendo. E quando torna con il pacchetto di polpette sigillato e il resto, con un sorriso largo e aperto ripete il gesto, prende un’altra polpetta dell’esposizione e più forte ripete, di nuovo, accuminciate mentre porge pure quella in omaggio. Girando attorno attorno al mercato del Capo si ripresenta via Maqueda che nelle traversine che scendono verso il mare offre aperitivi fighi, ricchi e ben costruiti per esempio nei locali – esteticamente apprezzabili e assai frequentati – del Vespa Caffè a via dell’Orologio. Subito sopra c’è un ristorante poco cool già dal nome: Ristorante Pizzeria Italia. E infatti si mangia bene e si spende il giusto, come – la sensazione suggerisce – in tanti altri posti a Palermo. Il panino cu a meuza più zozzoso lo fanno alla Vuccirìa, nella piazza più emarginata, con di fronte mura mai terminate e murales improbabili. Testagrossa sta poco distante dal Palazzo dei Normanni, invece, e può essere una sosta assai gustosa con le panelle, le arancine e ogni bendidio venduto all’esterno dei locali, anche per chi intenda salire poi da lì verso le catacombe dei cappuccini. Importante é non esagerare perché quel luogo che si va a visitare é impressionante e mal si concilia con lo stomaco pesante. Frati cappuccini, soprattutto ma non solo, mummificati e conservati con la pelle scurita e seccata intorno alle ossa, tutte al loro posto, quasi sempre con i capelli ancora attaccati, delle volte con delle espressioni terrificanti. Conservazione dovuta per lo più alla tecnica naturale nota come colatoio. I corpi si privano delle interiora, i liquidi si lasciano scorrere via, colare, e quel che resta é pelle dura come il cuoio e scurita, che resiste per secoli. La mummificazione per colatoio é quella che a Napoli poi dà origine a una delle imprecazioni più adoperate: puozze scula’. A Napoli l’adorazione dei morti é però completamente differente. Non mummie ma capuzzelle: completamente trasfigurate, solo teschio, capuzzelle anonime e intercambiabili almeno le più, tanto che venivano adottate, pare, anche in sostituzione, per una mancanza. Dai figli dell’Annunziata, per esempio, che i propri genitori non avevano conosciuto e che provavano a esercitare l’affetto filiale con le cure per una capuzzella. Che tanto tutte si somigliano. Tutti tendiamo inevitabilmente a somigliarci e a somigliare a loro (piano con gli scongiuri). Alle Catacombe dei cappuccini no, lì prevale proprio la volontà di conservare quella identità specifica, sia per chi va e vuole rimanere così nei secoli, sia per chi rimane e potrà ancora poi riconoscere il proprio caro. Niente intercambiabilità e finzioni, ognuno rimane le ossa che era, anche da morto. Questo devono avere pensato cinque secoli fa e in tanti, visto che le mummificazioni divennero una vera e propria “moda” costosa. Al naturale o anche con sofisticate tecniche artificiali. Come quelle adottate per Francesco Crispi che si fece mummificare -con tutta la mandibola presa a pietre a Napoli, sul futuro Lungomareliberato – dallo stesso medico dell’ultima ammessa nelle catacombe dei cappuccini. Una bambina di pochi anni che conserva una espressione bambolesca, con i capelli sulla fronte. A vederla mummificata appare terrificante. La chiamavano la bella addormentata e poteva starci. Ora vogliono che la si indichi come la mummia più bella del mondo. Ecco a voi la mummia più bella del mondo. Una cosa da guinness. Una roba da “primati”. Lascia un commento Annulla risposta Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *Commento Nome * Email * Sito web Navigazione articoli Chiamami con il tuo nome (Sennò mandami un messaggio)La fabbrica delle donne: storia di un paese immaginario (neanche tanto)