Di cosa parliamo quando parliamo di “arte contemporanea”? Qualche riflessione derivata da “il nostro tempo con il pensiero. Una filosofia del presente” di Sebastiano Maffettone.

maggio 17, 2024

Da “Il nostro tempo con il pensiero” di Sebastiano Maffettone, anche chi non ha solide base di studi filosofici come chi qui scrive (neanche liquide, per la verità) può trarne numerosi e variegati spunti e appunti ulteriori per approfondire e provare a ragionare.

Dall’invito a essere liberali, invece che laici, in un senso non tradizionale, ai limiti evidenti delle asfittiche dottrine “comprehensive”; dall’Europa come esempio, al regionalismo normativo, alla “legittimazione” preferibile rispetto alla “giustificazione”, da riflessioni su cosa è l’arte contemporanea, sul linguaggio, sul digitale, ricche di riferimenti, illuminate, dentro a uno scenario che fa dell’incertezza e della complessità due cardini, che non possono che essere condivisi.

Di particolare interesse possono risultare le riflessioni sull’arte e sull’arte contemporanea.

Cominciamo con lo sgombrare il campo da quello che non definisce correttamente l’arte o non la definisce correttamente più.

L’arte non è o comunque non è più “intuizione lirica”, che può provenire da uno sguardo innocente e non preparato (uh, bellissimo!); richiede, invece, un impegno profuso per conoscere linguaggi, simbologie, complessità.

All’arte non si può attribuire una funzione meramente estetica e contemplativa (ma bello, bello, bello), né appare corretto relegarla a isola protetta, impermeabile dalla vita materica o dalle altre scienze (la pretesa superiorità, così ancora diffusa), o a sistema privilegiato per accedere alla conoscenza, di più e meglio che con le scienze.

L’arte implica un sistema complesso di simboli, rappresenta un linguaggio, come ce ne sono altri, e anche per questo trova le sue implicazioni dentro a un determinato sistema “culturale”, per quanto largo si possa immaginare (Occidentale, Orientale), pur avendo un’aspirazione universale.

E anche per questo ha confini labili, opinabili, apre a discussioni, che sono sane, positive, ben venute, secondo Sebastiano Maffettone.

L’arte è una forma di conoscenza, non “più” ma “come” le altre “scienze”. 

Di più: la capacità di leggerla trova fondamento anche nell’impegno profuso per la conoscenza degli altri linguaggi.

Come hanno sostenuto, poi, tra gli altri, il filosofo George Dickie e Achille Bonito Olivaè opera d’arte ciò  che appare nei luoghi a cui deputati”, che fa parte de “il sistema dell’arte”; considerazione che, da una parte, evidenzia la funzione prepotente del circuito artistico istituzionale nel definire e promuovere e quindi “rendere” qualcosa arte per collocazione, dall’altra, lascia qualche perplessità a fronte della diffusione della “street art” “, che, in origine, della espressione fuori dai contesti deputati ha fatto la sua cifra distintiva. 

La rivoluzione digitale determina, poi, implicazioni nuove anche per l’arte.

Atteso che analogico e digitale sono “due modalità differenti per tradurre grandezze fisiche” (Maffettone, ibidem), quello che le distingue è la densità: quella analogica è costituita da un numero infinito di valori (la distanza tra due punti, la differenza infinitesimale di tonalità cangianti), mentre quello digitale è per definizione meno denso, si basa su un sistema numerabile.

Da qui ne deriva, sul piano digitale, in prima analisi, un sistema assai vasto ma finito e che permette una riproducibilità puntuale ma perde quell’elemento di ambiguità che connota l’analogico e caratterizza storicamente l’arte, nella sua funzione di disvelare, dentro un meccanismo che gioca tra il detto e il non detto.

Questo potrebbe significare la morte dell’arte?

Maffettone non cede all tentazione di questo pessimismo cosmico, forse, si può dedurre che, se di morte dell’arte si può parlare, si debba intendere nel senso di morte dell’arte come finora intesa. 

Ogni fine del mondo non è, in fondo, la fine del mondo così come lo si è immaginato fino a quel momento? 

Così evidenziava, peraltro, dalla sua prospettiva e come deduzioni dalle sue indagini “sul campo” già Ernesto De Martino, nel libro che tiene proprio questo tema a titolo.

Una cosa appare evidente: l’arte va perdendo di senso, come peraltro molti altri linguaggi, si potrebbe osare dire. 

Indagarne le cause è operazione complessa.  

Robert Morris, “uno dei principali e teorici artisti del Minimalismo” si evince da Wikipedia, uno scultore che rifiutava la finzione, l’attorialità, il “mettersi in posa” dell’artista, riconduce – come segnala Maffettone – a una connessione tre questioni: la digitalizzazione dell’universo della comunicazione, la democratizzazione della fruizione artistica e la perdita di significato dell’arte.

C’è di che riflettere.

L’avvento delle funzioni generative della rivoluzione digitale (ai ai ai) apre ora, in ogni caso, a un’era nuova anche per l’arte, in una chiave che potrebbe ritenersi, mutuando la terminologia da altri ambiti, “rigenerativa”, chissà.

Per il resto, riprendendo l’efficace metafora di Maffettone a chiudere le riflessioni dedicate a questo tema: tutti i tentativi di definire l’arte con precisione sono destinati al fallimento, perché è proprio la pretesa interpretativa a essere impropria, un po’ come se si volesse “classificare una pinacoteca nei termini in cui presenteremmo un catalogo di un colorificio”.

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