Cunti/ La pace coi crauti. La storia di Peppe di Michelalfonso che divenne Lutedesco

aprile 5, 2020

Che ne sapete voi di Peppe Di Michelalfonso, che gli erano bastati sei mesi a Dusserdolf per  diventare per sempre e per tutti “Lutedesco”.

I baffi alla Pruzzo, una Merit morbida in bocca fissa, era uno che parlava poco “Lutedesco”. Prediligeva l’azione e si arrabattava da sempre. Lo muoveva una molla potentissima: era tornato  al paese dalla Germania e si era ritrovato trattato come uno sconfitto, perché tutti quelli che emigravano poi stavano all’estero almeno qualche anno, il tempo di sistemarsi e rientrare con la casa finita e i marchi bastanti per una puteca, una machina da tenere a noleggio o una mietitrice. Altri si sistemavano là e ci rimanevano pure fino alla pensione.

Lutedesco se ne era tornato dopo sei mesi soltanto e così come se ne era partito. Un paio di pantaloni arrepezzati e una Simca che nessuno si spiegava come ancora si mettesse in moto.

A la Germania però si era divertito, eccome. Teneva una faccia con una curva delle sopracciglia folte che sembrava triste ma che ispirava fiducia e alle teutoniche piaceva. Scoprì una vita da scialo che manco immaginava  potesse mai capitare.

Birre e donne una continuazione, crauti, kartoffen e i migliori locali li sapeva lui. Quello che guadagnava si spendeva, e guadagnava bene.

La notte, specialmente, se ne andava a ballare alle discoteche con persone di tutte le razze, italiani del nord e turche più spesso. Per quello poi la mattina cominciò a fare tardi e alla fabbrica un richiamo oggi, uno domani, i mesi passavano, niente cambiava e così avevano dovuto dargli il benservito.

Lutedesco non aveva fatto una piega. Aveva cercato da qualche altra parte un lavoro, ma senza troppa convinzione. Poi finiti che erano gli ultimi soldi si era rimesso in macchina e se ne era tornato al paese, a la bassa Italia, lui e la Simca appunto.

Solo una volta arrivato si era dovuto rendere conto dello scuorno che gli altri gli portavano. Tornare così, senza manco un vestito alla moda, un accendino speciale che lo muovi e si vede la femmina nuda. Niente di niente. Dicevano non ti preoccupare e intendevano il contrario. Perché al paese da allora lo marchiarono come perdigiorno inaffidabile. Dicevano tra loro Lutedesco e abbassavano un poco la testa di lato sorridendo per scherno.

Lui, dal suo, si mise con buona lena per provare a fare di tutto: imbiancare, fare da idraulico, montare le antenne della televisione. 

Ma niente, non pigliava pace, perché finiva sempre per guadagnare poco. Così fece due debiti e si aprì un negozio di fiori, di ceri e di candele. Le cose cominciarono ad andare un poco meglio, i prezzi erano convenienti e qualcuno cominciava a dargli un poco di fiducia, ma ancora non stava nel suo. Poi una intuizione: era tempo di fare il grande passo. 

Si fece coraggio e si attrezzò per fare tutti i servizi mortuari, si prese la licenza e la machina portabare. Fece parecchi debiti e si impegnò anche la còta coltivata a grano dal padre, senza dire niente a nessuno. Non gli faceva specie il lavoro e il settore teneva le sue possibilità: chi prima, chi dopo, a tutti tocca passare da là. 

Certo, i paesani si fidavano di Ceccio, che questo mestiere faceva da che era vivo e a Lutedesco si sarebbero rivolti dapprima solo i suoi parenti e compari più stretti. Ma tempo ci voleva che le cose potevano cambiare, l’occasione doveva pure arrivare prima o poi. 

Intanto ogni trenta scadevano le cambiali della machina da pagare. Il tempo passava e niente di nuovo pareva accadere.

In capo a sei mesi poi capitò l’occasione: venne a mancare Zi Totonno, il marito di Ze Nannina.

Antonio Vincenzo Michele Liegi all’anagrafe, classe 1923, finì dove aveva speso la più parte della sua vita. Ad Hannover. Da là era tornato, ogni anno, giusto per le feste comandate. Due, tre settimane in tutto per anno.

Il tempo necessario per fare cinque figli e poi per portare a Natale i marchi, qualche maglia buona e le tavolette lunghe di cioccolata bianca, mentre che Ze Nannina se li cresceva, i figli, giorno dopo giorno. Tra questi uno in particolare, Giacomone, era stato l’amico più stretto proprio de Lutedesco. Si erano spartiti il sonno già da piccoli e fino a che per via di una certa Assunta, che piaceva a tutti e due, non avevano litigato e si erano tolti il saluto. Quella poi si era maritata con un forestiero, gli anni erano passati ma, secondo la migliore tradizione, Giacomone e Lutedesco erano rimasti sciarrati.

Una ragione di più per non chiedere a lui ma a Ceccio di andare a recuperare il povero Zi Totonno a la Germania. E Ze Nannina così fece. Ma Ceccio accampò una scusa, non ci volle andare. Troppi chilometri per lui che si era fatto anziano. E poi, a dirla tutta, aveva notizie che quelli della famiglia Liegi non fossero buoni pagatori.

Senza fare capire niente a Giacomone, Ze Nannina allora non ebbe altra possibilità e dovette incaricare Lutedesco di fare il servizio, tanto più che conosceva la Germania. Lui ne fu contento, poteva essere l’occasione per dimostrare che almeno per i morti lontano era meglio rivolgersi a lui.

E poi l’incarico gli avrebbe reso, per come erano i patti, quanto bastava per due rate delle cambiali a scadere e per campare  un mese buono. Affacciarsi in Germania, la verità, non gli dispiaceva per niente. Lutedesco non ci pensò due volte, si prese l’indirizzo dove andare, il numero di telefono di un compare che stava a Hannover da chiamare, equipaggiò la machina, raccolse tutti gli ultimi soldi che teneva, prese la valigia di quando se ne era tornato e partì.

Non ci aveva messo nessun pensiero ma, come fu e come non fu, arrivò in terra tedesca e mentre saliva verso Hannover, quando erano le nove la sera gli comparve l’insegna stradale che indicava Dusserdolf. Non resistette e svoltò. Ricordava a memoria la via per la discoteca “ Verlorenes Paradies”,  e a pensare che ci stava tornando ora con una bara vuota nel cofano – al Paradiso Perduto – gli venne un sorriso sornione, come non gli capitava da tempo.

Pagò, entrò, ma era ancora un poco presto. Pensò di prendere una birra. Poi un’altra. Finì che era praticamente ubriaco quando due guardie gli chiesero se era sua quella macchina mortuaria e gli intimarono di aprire il cofano; fatto il controllo gli imposero di andarsene immediatamente. Non volevano grane e uno con una macchina così in discoteca rischiava di portarne.

Dormì un sonno profondo in una piazzola di sosta lungo la bretella che collega Dusserdolf con Hannover e senza che nessuno venisse a disturbare. 

La mattina giunse al domicilio di Zi Totonno, salutò il compare che lo stava aspettando già da un bel po’ di tempo e fatte tutte le formalità e i servizi necessari, si prese giusto un boccone, caricarono la salma e si rimise alla guida. 

Non passò tempo che lo assalì una terribile fame. Entrò in un supermarket. C’erano i würstel, i crauti, la carne in scatola, quanti ricordi! 

Finì che fece una spesa che bastava per un battesimo e che per lui solo a casa poteva durare tutta una stagione. Anche sei fusti di Spaten da dieci litri l’uno prese. Tanto il cofano era grande e Zi Totonno pure da vivo avrebbe capito e condiviso la scelta. Arrivato giù avrebbe fatto un rapido passaggio per casa sua a scaricare tutta la spesa e poi pronti per il funerale.

Si rimise in auto e andò liscio fino all’altezza di Rimini. Da lì per via di un incidente, rallentamenti, una deviazione e un ritardo sul rollino di marcia che si andò facendo sempre più preoccupante. Tanto più che era notte. Arrivò al punto che fatti due conti se continuava cosi anche dopo Pescara c’era il rischio che l’indomani mattina avrebbero cominciato il funerale senza la salma.

Guidò come un forsennato. Non poteva proprio rischiare di arrivare tardi, per coscienza sua, per il funerale, perché se si potevano ricucire i rapporti con Giacomone così si sarebbero guastati definitivamente. E perché poi magari se faceva tardi i Liegi avrebbero preteso di pagare meno e nessun altro si sarebbe mai più rivolto a lui per i servizi funebri o di qualsiasi altro tipo. Un disastro.

Finì gli ultimi chilometri verso il paese tirando la machina come in un poliziesco. Recuperò tantissimo.  C’era quasi, ancora poche curve ed eccolo sbucare il paese. Rallentò un poco, fece un sospiro di sollievo sicuro di avercela fatta, ma quando stava per girare la traversa di casa sua per scaricare la spesa ecco Ze Nannina che lo vide e gli intimò di andare immediatamente verso la sua di casa dove tutto era pronto da tempo per accogliere la salma di Totonno.

Lutedesco provò a dire che lei intanto si incamminasse e che lui subito la raggiungeva, ma Ze Nannina niente, non volle sapere ragioni, prima lui rimetteva in moto la machina e solo dopo pure lei si sarebbe spostata.

Lutedesco si vide costretto a fare come veniva comandato.

Quando la machina arrivò fuori alla casa del defunto c’erano in attesa, disposti come un plotone, parenti, amici e conoscenti. Ze Nannina iniziò un pianto nuovo, più profondo, agitando la testa con gli occhi sempre chiusi.

Quando le passò, aprì gli occhi e vide di fronte a sé, nel cofano dell’auto, la bara sì, ma qua e là confezioni di salsicce, würstel, barili di birra, tanto bendidio e le si bloccò il respiro.

Guardò Lutedesco in un attimo di eterno silenzio. Poi, illuminata, spalancò gli occhi come quando si ha un improvviso colpo di genio, e gli fece: Grazie! Grazie, Peppino! Non dovevi, veramente non ti dovevi scomodare. É un gesto che pure Giacomino saprà apprezzare. Poi si girò cercando quel figlio suo. Giacomino, Giacomino, a mamma, vieni.

Hai visto Peppino? Non si poteva organizzare per portare qualcosa di cotto per il conforto e ha voluto donarci qualche pietanza della sua amata Germania. Eh sì, perché si è voluto occupare a tutti i costi lui di andare a prendere a tuo padre. Ha insistito tanto! Che gesto di cuore…

Giacomone e Lutedesco si guardarono. Tutti e due sapevano che non era iniziata così quella storia, ma era buona l’occasione almeno per fare pace. E così rigidamente e un poco impacciati si abbracciarono. Poi il funerale, le condoglianze e ognuno a casa sua.

Parole come quelle di Ze Nannina dette con quella solennità e in pubblico, al paese, sono tenute per scolpite, veritiere e definitive. Non ammettono ulteriori domande o discussioni. Sono legge.

E così Lutedesco rimase senza né birre, né würstel, né carne in scatola, con tutte le spese in Germania fatte, con la certezza che i Liegi non lo avrebbero mai pagato e con le nuove rate della machina che andavano a scadere. Giusto una confezione di crauti gli rimase, che era capitata chissà come dentro a la sua valigia.

Ma l’amicizia vale più che due cambiali, si diceva nella testa a farsi forza Lutedesco. E fosse come fosse teneva le sue ragioni.

La valigia de Lu tedesco

 

 

 

 

 

 

 

Ps Al paese intanto un gesto di quella generosità cambiò in breve completamente la reputazione de Lutedesco; nessuno nominandolo abbassava più la testa da un lato sorridendo per scherno. Al contrario, per dire di una persona che merita speciale rispetto si cominciò a dire “tieni presente Lutedesco? É come a Lutedesco”.

Lui, Peppe di Michelalfonso, fattosi anziano, quando contava di se stesso ai ragazzini del posto chiosava sempre: insomma la prima volta che sono andato a la Germania sono stato sei mesi e quando sono tornato nessuno che mi accolse bene perché dice che ero stato troppo poco. La seconda volta sono stato solo due giorni e  quando sono tornato tutti con massimo rispetto e accoglienza. Io non è che li capisco proprio bene bene a li paesani miei, una cosa però la so per certa:  quando ci andai la prima volta a la Germania sì che me ne vidi bene; e assai! E a quel punto, ogni volta, gli brillavano gli occhi e gli saliva sulla faccia quel suo mezzo sorriso un poco sornione.

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