Livorno, che dà gloria soltanto all’esilio e neanche ai morti la celebrità (semicit.)

settembre 2, 2019

E come poteva aver diverso il carattere, come? Livorno l’hanno creata con invito a stabilirvi costà diffondendo a gran voce la promessa di immunità per i debiti contratti e i delitti commessi precedentemente, con l’aggiunta di alcune facilitazioni per l’acquisto della casa.

Hanno accolto e messo assieme mercanti di ogni risma, Inglesi, Spagnuoli, Portughesi, Grechi, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani e altro ancora.

Qui non c’è un Ghetto perché si é partiti tutti nello stesso tempo con la volontà o almeno con la necessità di integrarsi gli uni con gli altri. Pari. La più mercantile e la più comunista d’Italia.

Circoli esclusivi e livornesi burloni

Una città costruita così si trova poi una lingua dritta, sfidante, provocatoria, sarcastica, netta. A Livorno le Osterie si chiamano ancora oggi “Osteria”, le macellerie “Macelleria”, le tabaccherie “Tabaccheria” e così avanti. Dritto, schietto, senza infingimenti e senza fronzoli. Così i caratteri, sbruffoni, agitati. Boia te! Brother there! acchiappa l’americano e vendigli qualcosa, sta lì, Brother there, Boia te!

E pure la struttura della città non è mica ortogonale, nella parte più vitale si intervalla per fossi e canali, fa per Firenze una venezia tra le fortezze vecchia e nuova e oltre. E intorno a quei canali c’è una vitalità senza apparenza, la città quasi non mostra neanche quel che ha, non se ne cura. Eppure avrebbe e ha di che dire, a cominciare dai suoi figli.

Ci sono nati, tra gli altri, uno dei pittori italiani più universali di sempre, un compositore memorabile e senza tempo, un poeta tra i maggiori e i più profondi del Novecento, il cantautore nostrano più sottovalutato del secolo scorso e il Partito Comunista Italiano.

Amedeo Modigliani, Modì per i francesi che poi suonava simile a maudit, maledetto, e in fondo un poco lo era. Una vita come una opera d’arte, i quadri con dentro l’anima ma senza gli occhi (o con un occhio solo, così da un lato chi è ritratto guarda il mondo, dall’altro può essere guardato dentro), una serie infinita di ritratti femminili, con i lunghi colli eleganti e le figure nude e – rivoluzione – con i peli pubici, che determinarono peraltro la chiusura immediata della prima esposizione a Parigi, Mon dieu, che oltraggio al pudore che fu! Una nascita da romanzo, in una famiglia vicina alla bancarotta con la madre che fa riporre sopra al letto tutti gli oggetti di maggior pregio, che per legge non si tocca nulla e nulla si porta via dal talamo di una partoriente. Una vita intrisa di malattia, donne, vizi, esasperazioni, ricerca continua di nuove espressioni dell’arte e di sé. Una morte delirante che genera altre tragedie, con la sua amata Jeanne che non gli sopravvive e si lancia nel vuoto, nonostante una figlia piccola, nonostante fosse incinta, al nono mese. Al funerale di Modì c’erano tutti, da Ungaretti a Picasso, a Parigi.

A Livorno, a ricordarlo c’è un busto, una targa e una possibile visita nella casa natale, su appuntamento e senza opere (a novembre 2019 però pare ci sarà una bella mostra, speriamo). E il nome inciso in una placca, sulla porta, come se si potesse bussare e chiedere: che c’è il maestro?

Chi conosce quei luoghi ricorda che Modì aveva lo studio sotto a quel Mercato Centrale, coperto, imponente e con le soffittature gentili, ancora oggi centro nevralgico cittadino, senza cedimenti al turismo da crociera.

Subito fuori dal Mercato si può far sosta al Gagarin e assaggiare il “cinque e cinque”, la torta di ceci dentro un panino francese che qui pare nacque (cinque soldi di panella e cinque di pane) e ancora gode di ottima salute. Una esperienza spaziale. Ad accogliere c’é una signora fiera che a chi chiede se si possono aggiungere le melanzane risponde con modi spicci, basta chiedere eh, ci sta scritto pure. Tutti ignoranti son i miei clienti. E a un altro: che tiene? Non ci vorrà mica lasciare proprio ora. Non c’è gentilezza certo, ma è un linguaggio altro che può essere anche più gradevole, interessante, memorabile. Chissà se c’era già ai tempi del pittore dell’anima il cinque e cinque. Per il resto neanche la toponomastica pare riservare grandi onori a Modì, una strada gli rimane intitolata, neanche a ridosso dell’area più bella della città.

Più fortuna ha avuto il fratello deputato, Emanuele Modigliani, di cui una statua fa bella mostra di sé nella piazza dedicatagli, in quel tratto di lungomare che conduce verso la Baracchina Bianca prima e quella Rossa a seguire, un tempo ritrovo esclusivo dell’intellighenzia (e magari della massoneria tanto diffusa qui) ora meta popolare per una colazione guardando il mare, sotto gli occhi vigili di una gestione tutta nuova.

Di là una sequenza di casette liberty con quell’eleganza di maniera che fa simpatia, un poco oltre i Casini d’Ardenza (che parola: ardenza!), un complesso architettonico a forma di omega e in stile neoclassico, che ieri ospitò le vacanze balneari dei re e oggi quelle dei nuovi ricchi.

Di fronte c’è il mare e gli stabilimenti che sembrano interi quartieri su piattaforme, con spogliatoi mobili, tutti uguali in sequenza e famiglie che ci vanno per passare la giornata e anche la sera. Cinque euro l’ingresso, tutto escluso, anche gli ombrelloni.

E meglio che ad Amedeo Modigliani sembra essere andata pure a Bud Spencer, sì a Bud Spencer, che qui nemmeno ci nacque, ci girò però un paio di film. Quanto basta per una riproduzione a grandezza naturale benedetta dal sindaco e di sindacabile gusto estetico; sta oltre la terrazza, a due passi dallo Scoglio della Regina, che ieri ospitava Maria Luisa di Borbone e ora un famoso Centro di Ricerca e bagnanti impenitenti.

Più fortuna di Modigliani, almeno per la toponomastica nel suo natìo, ha di certo avuto poi Pietro Mascagni. Il ricordo del compositore, infatti, non passa certo in cavalleria, complice l’intitolazione della favolosa Terrazza, un belvedere meraviglioso che riconduce da quel lungomare verso la città.

Si dipana sinuosa la Terrazza Mascagni, affaccia sulle isole toscane e si intravede finanche la Corsica. È molto instagrammatica, complice un pavimento a

scacchi che sembra giocare con Escher e un tramonto a mare che si allunga lento, godibile.

Oltre che per la terrazza il nome di Mascagni è ripreso, naturalmente anche altrove. Nel Sud Italia i capelli tagliati e pettinati come i suoi, che devono essere risultati molto nuovi a quel tempo, ancora si chiamano per l’appunto “alla mascagna”. E il nome del compositore é riportato poi nella targa che ne ricorda la casa natale, naturalmente. Dà sopra a piazza Cavallotti o delle Erbe, dove si tiene il mercato ortofrutticolo all’aperto della città e dove affaccia La Barrocciaia, Osteria che merita una sosta la sera, tra fiori di zucca fritti, delicati e saporiti con ricotta e alici, una sorprendente carbonara di mare e altre specialità tipiche toscane, dal cacciucco con cinque C al finale da affogare in un ponce. Il ponce è una bevanda propria di Livorno, trasfigurazione del punch d’oltremanica portato dagli inglesi, con il caffè in luogo del the e un composto locale a base di alcol a sostituire il rhum. Buono anche d’estate, il ponce riscalda il cuore.

Di più riscaldano però le poesie di Giorgio Caproni, i versi spezzati, le rime interrotte, la consapevolezza del limite che segna la parola e che non le farà mai trasmettere il senso di una rosa.  Oltre alla targa (eh, sì, la targa) dove nacque, in corso Amedeo, compaiono alcuni totem del centenario della nascita nel 1912, nei luoghi cari al poeta e ora dimenticati, tra via Palestro e un anfratto del Mercato Centrale. Questo ne rimane anche di Caproni.

Sorte migliore tra chi qui vi è nato pare averla avuta il Partito Comunista. Fu costituto in via San Marco, nei locali del teatro omonimo, il 21 gennaio del 1921 e sarebbe presto entrato in clandestinità per colpa del fascismo. C’è anche lì una lastra a ricordarne la nascita e una bandiera. Dentro a quegli spazi ha preso però forma un fantastico asilo. Segno lampante che i comunisti non mangiano più i bambini. Al più li crescono per la loro imperitura memoria.

E Piero Ciampi? A domandare in giro penseranno a un errore nella domanda: intendete il Presidente della Repubblica, vero? Eh, bravo quello sì. Il fratello ha l’Ottica qui in centro, quando lo fecero Presidente c’era sempre una volante di fuori al negozio. Non durò molto, sa. Chiamò suo fratello e disse, con tutto che sei Presidente però da qua fuori falla togliere questa macchina qua, che la gente si impressiona e non entra. Non ho venduto neanche un paio di occhiali la settimana scorsa. E così la scorta scomparve da fuori al negozio. Il carattere della gente qua è questo.

Del cantautore di “Adius” “Vino” “Te lo faccio vedere io chi sono” “Tu no”, di “Andare camminare lavorare” resta il meritevolissimo appuntamento annuale con il “Premio Ciampi” e poi poco altro.

Venezia, swing improvvisato tra i canali

Anche qui la targa (…), fuori la casa dove nacque. La sorte vuole che sia su via Roma, esattamente di fronte all’abitazione dove nacque Modigliani. Succede nei luoghi piccoli e – a quanto pare – pieni di ispirazioni.

Neanche su via Terrazzini, dove pare che Ciampi sedesse a bere anche l’ultima sera della sua vita, c’è una qualche memoria. Rimane però una antica Osteria, molto nota per il già citato cacciucco, la variante locale di una zuppa di pesce, rossa con dentro seppie, calamari, polpi, cozze e a richiesta pesci spinati. Cotto con l’aglio, la salvia e il vino rosso. Da provare. L’Osteria si chiama Sottomarino e sale facile alla mente “ma io ti compro un sottomarino!” che cantava proprio Ciampi, ma è solo una bella suggestione. Non c’entra nulla con Piero. Ciampi. Un ubriacone, da prender l’anticipo per un contratto e sparire. E poi tornare e chiedere un altro anticipo senza aver ancora scritto nulla. Un perdigiorno che se ne va a Parigi, Litalianò, e si guadagna da vivere scrivendo versi sui tovagliolini del ristorante, forse ispirato anche da Celine che nella capitale francese conobbe. Un nevrotico inaffidabile, che non riconosce i figli e che preso dall’euforia di esser padre bivacca tanto a lungo da non far più in tempo a registrare la nascita all’anagrafe. Una razza a parte, come si è detto di Enzo Del Re e del suo manifesto ”lavorare con lentezza”, ripreso nel documentario necessario di Pasquale Napolitano.

Un vagabondo, avvistato tra l’Europa e il Giappone, scomparso davanti alla migliore occasione. Uno che sputa in faccia alla vittoria e la manca, e se ne fa comunque beffa. Come un giocatore di poker votato a perdere ha sempre rovinato tutto. Canzoni sì che ne ha indovinate, per il resto non ci ha mai preso, mai una partita, mai un cavallo, un numero, non ne ha indovinato uno, neanche a morire. Aveva scommesso che sarebbe crepato di cirrosi epatica e invece se lo portò via un cancro all’esofago. Che beffa.

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