Se Bellocchio tradisce Favino.

maggio 30, 2019

Non basta lo scamone di primissima scelta, i pelati più saporiti, la cipolla ramata di Montoro, la pazienza e tanta buona volontà per fare bene il ragù. E come funziona in cucina, così al cinema.

Ci sono film da vedere perché hanno attori capaci, registi sperimentati, sceneggiatori sicuri, musiche delle mani più sapienti.

Se poi provano a raccontare un pezzo di storia italiana puntando l’obiettivo su un protagonista con forti connotazioni come è stato il mafioso dei due mondi Masino Buscetta, gli ingredienti sembra davvero ci siano tutti. E le aspettative di più.

Forse anche per questo, talvolta, tradiscono. Così capita con l’ultimo film di Bellocchio.

Favino – al netto di qualche accento che riecheggia più quello del suo straniero di Koltes che il modo pure particolare di parlare di Buscetta – conferma di essere tra i migliori attori italiani della sua generazione. E con lui gli altri, Fausto Russo Alesi (Giovanni Falcone), Luigi Lo Cascio (Salvatore Contorno), Fabrizio Ferracane (Pippo Calò), sopra a tutto.

Alcuni momenti sono di grande potenza scenica, come la sospensione aerea della moglie del protagonista e gli sputi mafiosi contro la tv che trasmette le immagini da Capaci.

Altre confermano gusto, eleganza, fin dal principio con i flash che presentano i protagonisti, il titolo che compare tra i fuochi di artificio, il conteggio dei morti ammazzati sincronico con le scene e gli spari.

E però il film complessivamente non convince.

All’inizio la camera si accende su un ritrovo festoso di riconciliazione tra mafiosi e famiglie, e propone un outfit delle signore in particolare che guarda più al ballo del Gattopardo che ai Cento Passi.

La scelta di Buscetta di aprirsi a Falcone avviene quasi senza pathos, per l’offerta di una sigaretta, senza che nemmeno questa scena acquisisca poi una sua enfasi.

La narrazione si prolunga oltremodo spesso senza aggiungere nulla di ficcante. La riproposizione del maxi processo, degli interrogatori e dei confronti, ricalca quasi pedissequamente quanto veramente emerge dai filmati storici, prova a riproporre la cifra psicanalitica tanto cara a Bellocchio ma non conserva la tensione necessaria a fronte di una durata prolungata.

Andreotti senza pantaloni che esce dalla sartoria può far sorridere ma, salvo non sia un aneddoto raccontato come reale, sembra piuttosto un espediente di poco momento.

Né conforta la denuncia laterale e necessaria di quanto la stampa e l’opinione pubblica abbiano finito per disinteressarsi delle vicende quando invece si stavano toccando i piani più alti.

E se la scelta di inquadrare Falcone che guida verso la morte come se lo spettatore fosse in macchina con lui è suggestiva e il particolare della chiave distrattamente tolta in corsa richiama un ulteriore elemento storico, non basta certo la scena finale per riequilibrare un quadro di insieme che sembra proporre Favino Buscetta in una ricostruzione quasi assolutoria.

In altri tempi qualcuno avrebbe detto che lo sguardo che si posa su questa storia da parte di Bellocchio ha un retroterra borghese, oggi si potrebbe considerare l’ipotesi di un regista che prova a tenere assieme, con difficoltà, rigore nella ricostruzione e epica criminale, tanto in voga anche per prodotti di punta e seriali. Viene il sospetto, malevolo, che tradisca aspettative più nostrane e strizzi l’occhio, in qualche modo, al mercato internazionale. Forse semplicemente non punta al ragù con il suo “bel tono di palissandro scuro”, ma a un combo deluxe con salsa a parte.

Buon appetito.

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