di batriacomomachie, Leopardi e algoritmi

marzo 21, 2019

Siamo topi in una scatola da lungo tempo. Tracciamo percorsi e lasciamo tracce tra i separatori. Il taccheggio, i piccoli furti nei supermercati, sono una voce di costo aziendale, prevista, spesso risibile, sempre inserita nei bilanci preventivi.

Le videocamere dissuadono di certo dai furti, ma nei centri commerciali assolvono principalmente a un’altra funzione.

Considerano i percorsi che noi, topi, tracciamo tra gli scaffali. Calcolano il tempo di permanenza davanti a un certo prodotto, in un’area, davanti a un’attraente figura pubblicitaria.

E questo si traduce in strategie di posizionamento delle merci, in potere contrattuale verso i fornitori che se vorranno i loro prodotti esposti nei posti migliori dovranno garantire uno sconto molto alto o qualche altro vantaggio.

Siamo topi in una scatola da diversi decenni, perché queste rilevazioni la Grande Distribuzione Organizzata – e tanta altra parte dei Big Player – adopera da molti e molti anni, ben prima che esistessero Google, Bing e Yahoo.

L’unica differenza è che ora la scatola è molto più grande, è digitale, e noi ci siamo dentro (quasi) tutto il tempo.

Averne consapevolezza ci farà topi migliori e più attenti.

Ci sono pratiche, poi, divertenti e che in qualche modo vanno oltre. Rimanere in complice compagnia per un tempo lungo a fissare uno scaffale vuoto, per esempio.

Dà la sensazione di sabotare il sistema e di far saltare i calcoli del cervellone elettronico (come può essere che, come emerge dai dati del calcolatore,  la massima permanenza dei consumatori è stata registrata dinanzi all’unico scaffale vuoto? #epicfail #gameover).

É illusorio, certo, ma praticarlo sapendolo dà una piccola, simbolica soddisfazione. Farà sorridere infantili, garantito. E questo è un privilegio che non andrebbe mai sottovalutato.

Lo stesso e ancora di più si può fare negli ambienti digitali, con la diffusione di informazioni su se stessi sbagliate ma verosimili, episodi personali mai capitati ma possibili, geolocalizzazioni inventate ma credibili. Almeno per il cervellone elettronico che le traccia e le userà.

Fatta a lungo su grande scala, coinvolgendo un numero spropositato di persone, una operazione di questo tipo potrebbe aspirare a creare una falla nei big data ad uso spregiudicato o criminale, a deviare il corso degli algoritmi sovrani, ad ottenere effetti grotteschi dalle learning machine dominanti, ridimensionandole, riportandole a quel che sono. materia, usata dall’uomo.

Sarebbe la fine di questo ossequio quasi sacrale per le macchine e il dio dell’intelligenza artificiale. Utilissima, ma osannata quasi fosse altro dall’uomo ormai, extraterrestre venuto finalmente a conquistarci.

Non sarebbe in fondo male.

Ma il tempo delle azioni collettive è finito con il secolo scorso e il cazzeggio libero in salsa Amicimiei non è trendy da mai, confinato a pochi intimi. Rimane l’essenziale tuttavia anche nell’accontentarsi delle azioni individuali o comunque di pochi, sicuri di un effetto donchisciottesco, ma con quel quid di piacere che nessuno avrà in potere di eliminare, né di limitare.

Provare è facile e non ha costi.

Si potrà, poi, finanche tentare di dare ad azioni fesse come queste un pretenzioso richiamo alto, altissimo.

Vichiano, perché quello che non si vede, compreso il sorriso che determina questo agire idiota, è superiore a quel che si vede e si misura cartesianamente.

Leopardiano, soprattutto.

Non tanto perché il sommo poeta tiene la sua ultima opera a trattare proprio di topi, sbeffeggiando quelli (nel caso specifico  liberali, a Napoli) che coltivano aspirazioni improbabili.

Molto più per L’Infinito suo, che tiene duecento anni e se li porta magnificamente, senza photoshop, lifting o liposuzioni.

Conserva una potenza ritmica ed emotiva, assieme a una carica letteraria scandita in maniera innovativa, rivoluzionaria, che altri racconteranno con maggiore cognizione tecnica.

Molto più in questi giorni, con le celebrazioni della poesia allo sbocciare della primavera e delle manifestazioni programmate a Recanati. A Napoli, invece, poco o nulla pare sia previsto per ricordar il giovane favoloso tanto amico di Ranieri.

Sopra a tutto si può vantare qualche aspirazione leopardiana in questo approccio per una questione essenziale: non c’è algoritmo che possa riprodurre L’Infinito. Né ci sarà. Chi lo sostiene mente o vuol far sensazione. E se, al contrario, ci crede, è peggio.

Non esiste  paradigma quantitativo che possa racchiudere interamente e finitamente l’universo, l’esistenza. Considerare l’algoritmo “sovrano” implica una resa alla tecnica che non meriterebbe. Ritenere il mondo tutto decifrabile, computabile, palmo a palmo, è una fesseria.

Misurare è fondamentale, ma guai a ritenere che tutto sta dentro a una scatola chiusa e che si potrà capire il senso sul fondo, calcolatrice alla mano.

L’Infinito – Conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli

Chi si ostina a farlo si pone come se, trovatosi al cospetto del Monte Tabor, si limitasse a tenere lo sguardo di qua dalla siepe, e si intestardisse a contare le foglie tutto il tempo convinto di cercare così la Verità.

Auguri.

 

Pollena Trocchia, 21 marzo 2019

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