Aspettando i Barbari. Storia di un risveglio tardivo da una vita disabitata

febbraio 17, 2017

Il risveglio dal sonno delle abitudini, da una vita che non ti appartiene, può arrivare in qualunque momento. O anche mai.
Al magistrato protagonista di “Aspettando i barbari” capita quando è già un po’ in là con gli anni. Dopo una vita spesa tra letture dei classici, collezioni, raccolta di mappe, ricerca di un significato alle iscrizioni sui reperti in legno rinvenuti nel deserto. Soprattutto dopo una vita di cieca ubbidienza e applicazione delle leggi dell’Impero. Il risveglio non può essere placido e non lo è.
Il magistrato incontra qualcosa che somiglia all’amore. Una ragazza – barbara- non bella, quasi cieca e malconcia per via delle torture subite da uomini dell’Impero. Ha visto uccidere il padre ed ora è lì, sola, in quella cittadina di frontiera. La tiene con sé, dedicandosi a lei in uno strano rituale. Senza sesso. Per quello torna alle prostitute di sempre, più rassicuranti, meno impegnative.
Poi anche il rituale si rompe, sembra farsi abitudine. Sembra incrinarsi la relazione con la “ragazza”, (come lui la chiama sempre, fino alla fine, quasi a sottolineare la differenza di età, un certo distacco, sentito o ricercato).
Il magistrato s’imbarca in un’impresa quasi surreale. Parte con lei (e due suoi uomini) per andare incontro ai barbari. Nel viaggio scopriranno un’intimità mai provata prima. Dopo giorni di fatica e patimenti eccoli, i barbari. Ha portato la ragazza fin lì perché potesse scegliere. Rimanere con lui o tornare tra la sua gente. E però vorrebbe che rimanesse con lui. Lei no. Non la rivedrà mai più. La sua spedizione personale sarà confusa per un tradimento. Da magistrato si troverà a rivestire i panni dell’accusato, del torturato, fino quasi alla morte.
La sua cittadina perderà la tranquillità di un tempo. L’arrivo di sanguinari militari imperiali, la paura dei barbari e la preparazione di spedizioni belliche la stravolgeranno. Fino a lasciarla, poi, quasi disabitata. Per il magistrato sarà il ritorno alla vita, o almeno a qualcosa di simile. Tra vecchie amicizie, a condividere piccoli piaceri nel tempo che rimane.
Il romanzo di Coetzee è un libro di elevato spessore narrativo. Racconta, con uno stile asciutto e cambi di ritmo calibrati sul susseguirsi delle emozioni, una storia senza tempo, alternando momenti onirici a introspezioni profonde.
In “Aspettando i barbari” si respira l’atmosfera del deserto di Buzzati. Con la differenza che qui i tartari, ops, i barbari arrivano, o meglio sono cercati e trovati. E poi persi. Perché diventa difficile dire chi siano i veri barbari, se non siano peggiori i torturatori dell’Impero. Col risveglio del magistrato Coetzee indaga in un’esperienza personale e collettiva che vale sempre. Quella collettiva si dipana nella lotta di un Impero contro gli indigeni selvaggi. Apre a molteplici riflessioni anche sul nostro tempo e sulle costruzioni individuali e collettive di nuovi “barbari”.
Non da meno quella personale. Non c’è coerenza, non c’è coraggio gladiatorio nelle gesta del protagonista. I sentimenti sono difficili da definire, fluidi. Il rischio che siano determinati da debolezze, sensi di colpa, volontà di riscatto, solitudine è sempre in agguato. Solitudine, soprattutto. Perché Aspettando i barbari è anche la storia di un uomo solo, profondamente solo. Incapace di partecipare fino in fondo ai rapporti con la ragazza, con altre donne. Che lo sentono sempre un po’ altrove. Un uomo che si risveglia, scende agli inferi, sfiora la follia in carcere, la morte senza dignità. Poi risale la china. Leggero. Consapevole. A chiedersi cos’è stato ad impedire di vivere come i pesci nell’acqua, come gli uccelli nell’aria, come i bambini. Liberi dall’attesa dei barbari.***


(recensione per:
J. M. Coetzee, Aspettando i barbari – Traduzione di Maria Baiocchi;
Einaudi Tascabili: Prima edizione: 2000; pp. 197 – € 8,5; ISBN 8806154508)

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