Bonfiglio Liborio, viaggio nella testa di un cocciamatte di paese. (vincitore Premio Campiello 2020 e finalista – per il momento – al Premio Napoli 2020)

settembre 17, 2020

Con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, l’autore, Remo Rapino, fa un viaggio coraggioso e struggente dentro la testa di un “cocciamatte” di paese.

Lo fa e invita a farlo con una lingua ritmica che sa di dialetto meridionale e di parole morzate e inventate specificamente da questo personaggio che superati gli ottant’anni ricorda la vita sua e i tanti segni neri che l’hanno marchiata.

Più che matto Bonfiglio Liborio sembra appartenere a quella categoria di emarginati che dopo aver provato a camminare  sul crinale di una esistenza di stenti, disadattati e senza fortuna, sono incespicati, caduti e rotolati malamente fra i rovi, fino a sbattere la testa e a non poter più risalire. Dimenticati da istituzioni che esistono e intervengono solo in chiave puntiva.

Mentalmente fragili eppure capaci di ragionamenti fini, con sensibilità inusuali, di una bontà disarmante che può però diventare anche cattiveria e violenza improvvisa, incontrollata, se il mondo sembra prendersi gioco o peggio spadroneggiare su di loro.

I Bonfiglio Liborio si incrociano su panchine periferiche di piccoli paesi a fumarsi mozziconi di sigarette di ieri, con gli occhi che guardano altrove e smorfie come sorrisi senza gioia. 

Remo Rapino erge uno di loro a personaggio centrale di un viaggio, che è un viaggio attraverso le tappe di una vita martoriata, di chi avrebbe come unica aspirazione una certa forma di noiosa normalità, o anche meno.

Lo fa legando la storia privata di un cocciamatte a quella dell’ultimo secolo, richiamando gli eventi essenziali come appaiono agli occhi di una persona che ha pochi strumenti di ragionamento, conduce una esistenza sempre più emarginata, ma ha chiaro cosa sia il bene. E – qualità sempre più rara in questo tempo – si pone domande, quelle che può.

Intorno c’é tanta miseria umana che sfotte il matto, gli imputa sfortuna, lo usa come uomonero per spaventare i bambini, lo prende malamente in giro, si fa beffa senza pietà di un poverocristo. (E quanti potremmo confessare di avere – con possibili attenuanti dovute alla giovanissima età – fatto qualcosa che somiglia a una di queste cattiverie ai Bonfiglio Liborio che sono capitati a tiro).

Remo Rapino costruisce un personaggio letterario di spessore. A far finta di sapere di cosa si stia parlando rischiando spericolate e presuntuose assimilazioni, si potrebbe dire che la semplicità mentale ha echi di rimando a pagine di “Uomini e topi”, il ritmo elevato e la musicalità della scrittura sembrano risentire di riflessi del “Viaggio al termine della notte”. Ma pare mancare la tensione di Carver.

E se é evidente che l’intento dell’autore é far parlare e pensare Bonfiglio Liborio così come si può immaginare che lo faccia e che questo modo punti a restituire verità e poesia, se tutto questo è vero e comprensibile, resta che la mente del personaggio é fragile, per l’appunto. Il ritmo é (di conseguenza?) praticamente sempre lo stesso. Come una lunga apnea, un racconto buono da spezzare, forse, in monologhi da teatro. Si entra come in un loop, come in certi pezzi di musica elettronica e ti deve piacere molto il pezzo per poterlo ascoltare uguale a se stesso per un tempo lungo. Sennò corri il rischio di uscire dalla testa di Liborio e di avvertire – da fuori – come una nenia, la nenia di un matto su una panchina che ciondola il corpo avanti e indietro a raccontare ogni tanto fatti, in mezzo a tanti abbondanti ricorrenze tutte uguali.

Remo Rapino vuole evidentemente molto bene al suo Liborio e lo propone così, nudo, come si presenta. E bisogna pian piano nelle pagine imparare a volergli bene così anche da lettori, per poter entrare nel loop e proseguire fino al fondo. Se vi si arriva non si trova pentimento, anzi.

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